La genitorialità è il modello culturale e psicologico al quale usualmente viene associato il lavoro di cura, assistenziale e/o sanitario. Quasi come se vi fosse un’equivalenza tra curare bambini e curare un adulto colpito da tumore o un adulto anziano affetto da demenza.
Si tratta di un universo completamente differente, che mutua alcuni contenuti dall’esperienza dell’allevamento della prole, soprattutto soluzioni pratiche o strumenti, ma che dal punto di vista culturale e relazionale si colloca in tutt’altra dimensione: per questo la formazione dedicata deve avere una sua specificità e aiutare a rielaborare l’esperienza.
Replicare il modello infatti porta con sé distorsioni e attivazioni di conflitti o regressioni, che spesso inficiano la relazione d’aiuto. Non si può negare che vi siano cure dell’infanzia che sono sane ispirazioni curative, come per esempio il gioco, la risata, il contenimento fisico o le coccole; tutti contenuti eccellenti che sono trasversali a tutte le età e in tutte le condizioni, anche nelle cure di fine vita.
Per trovare interessanti suggestioni a riguardo, Vi invito alla visione del film “Patch Adams” (1998) con Robin Williams o a leggere il libro “Salute! Curare la sofferenza con l'allegria e con l'amore” del Dr. Adams e Maureen Mylander.
Ma torniamo a quelle differenze che è bene tener presenti e che ci aiutano a focalizzare quando una relazione d’aiuto è sana o meno.
Accompagnare ai primi passi un bambino di 10 mesi o ai primi passi dopo la riabilitazione un uomo con limitata capacità di deambulazione: magari usano ambedue un “girello”, sia appoggiano ai mobili o al corrimano, vanno lentissimi rispetto al nostro passo. Siamo concentrati sul fatto che non debbano cadere e li reggiamo saldamente, ma mentre nel primo caso siamo inconsciamente certi che il bambino si rialzerà facilmente - dopotutto “i bambini sono fatti di gomma” e poi in fondo sarà presto autonomo - nel secondo caso siamo invece assaliti da pensieri nefasti, immaginiamo un femore rotto, interventi invasivi, una ulteriore assistenza, il carico che dovremo portare... Panico!
Nel primo caso, si rassicura il bambino imitandolo, giocherellando e cambiando la nostra voce per farlo sentire come dentro ad un cartone animato. Purtroppo però spesso assisto a situazioni dove questo atteggiamento viene applicato anche agli adulti anziani: “Su dai che ce la facciamo” con voce stridula e lenta, come se non fossero capaci di comprendere il tono di accondiscendenza con il quale li trattiamo.
Questo approccio produce l’infantilizzazione della persona che riceve le nostre cure, la sua perdita di dignità e inoltre consolida la sua percezione di perdita del senso di sé, accelerando una fase di regressione.
L’uso delle frasi è standardizzato, si assiste ad un impoverimento del linguaggio e conseguentemente della potenzialità di espressione della persona.
L’infantilizzazione è una forma di discriminazione, spesso attuata attraverso un comportamento o un lessico che appunto esprime attributi infantili, che negano la maturità raggiunta con l’età o con l’esperienza. Parole come “carino”, “piccolo” e “adorabile” vengono usate per esprimere gli attributi di un adulto anziano.
Ulteriore danno ricade sul caregiver: ne sono un esempio le assistenti familiari (comunemente dette badanti) o i familiari che sono al fronte della cura in modo continuativo. Loro stessi perdono la dimensione di un linguaggio appropriato, paritario, basato sulla doppia adultità e dignità reciproca di adulto in rapporto ad un altro adulto, influenzando i percorsi terapeutici e la progressione o regressione di coloro dei quali si prendono cura. Non che accudiscono, perché non sono bambini.
Inoltre i bambini stessi puntano a crescere e le tappe sono appunto evolutive, arriva un giorno in cui ci sentiamo dire: “piantala di trattarmi così, non sono più un bambino!”... non sorprendiamoci se la voce in questione appartenga a un quattordicenne o a un ottantenne. Anzi, se arriva da quest’ultimo prendiamolo con un segnale molto positivo e come un feedback verso il nostro comportamento, quindi mettiamoci in gioco.
Spesso leggiamo sulle riviste o sui saggi divulgativi che “si diventa genitori dei propri genitori”: è una distorsione della realtà, derivata dalla mancata attualizzazione dei fatti e di chi è “naturale” curare nell’età matura. Una visione che ci induce a trattare gli adulti o le persone con disabilità fisica o cognitiva come bambini.
In sintesi, una delle competenze che dobbiamo lasciar andare è quella della cura infantile, per abbracciare un modello di cura in età adulta. Dimettiti da genitore e assumi un ruolo maturo, paritario e aperto alla scoperta del lavoro di cura.
Cristina Cortesi – Care Coach, Filosofa, Esperta di caregiving e di longevità consapevole, ideatrice di Curopoli – La città della cura, founder di Social Unit, Manutenzione delle Relazioni, CHO e Genio+ di 2BHappy